Sono quasi due anni che la pandemia è in corso e noi ci siamo trasformati da quando l’Italia è entrata nel primo lockdown: oggi siamo angosciati per l’incertezza del nostro tempo. Un’angoscia diversa rispetto a quella di marzo 2020: allora avevamo paura del contagio, oggi stiamo vivendo l’angoscia della precarietà e della grave destabilizzazione dei contesti relazionali.

Dal punto di vista psichico abbiamo attraversato varie fasi pandemiche, ciascuna delle quali con dimensioni emozionali specifiche: nella prima ondata di marzo 2020 l’angoscia di contrarre il virus era quella prevalente, mentre nell’estate 2020 abbiamo sperato in una guarigione totale dal Covid per poi ripiombare nell’autunno 2020 nella delusione di quanto sperato. Sappiamo quanto la seconda ondata sia stata per la nostra comunità peggio della prima, perché ci siamo ritrovati sopraffatti dal trauma della recidiva: durante l’estate 2020 siamo stati più sereni, pensavamo di allontanarci piano piano dal virus e dal suo attacco violento e distruttivo e invece ci siamo ritrovati in mezzo all’oceano più di prima senza vedere la riva. Abbiamo dovuto ricominciare a lottare con meno speranza, affaticati e timorosi, lasciando andare quell’illusoria guarigione a cui tanto avevamo sperato nel primo lockdown.

Nella seconda ondata, a partire dall’autunno 2020, tutte le misure adottate per il contenimento del contagio ci hanno resi più fragili perché hanno intaccato l’essenza dell’essere umano nei suoi bisogni psicologici fondamentali: la libertà e la relazione con l’altro. Deprivati della nostra libertà e della dimensione interpersonale, ci siamo sentiti soli, impotenti e angosciati. La relazione di cui ci nutriamo per vivere riflette al contempo la minaccia del virus. Questa grave destabilizzazione della relazione umana è il portato traumatico dell’epoca Covid. Quando l’incontro con l’altro potrebbe diventare veicolo d’infezione allora la relazione stessa diventa pericolo, fonte di grave incertezza proprio per la natura elusiva del virus. Il Covid ci restituisce quindi un contesto relazionale di precarietà. Abbiamo bisogno dell’altro, di sentirci connessi nella relazione e al contempo siamo spaventati dal contatto, dalla sua vicinanza fisica, dal suo corpo. Il vissuto collettivo depressivo non è rivolto al passato, dove quello che è stato perduto è vissuto ancora profondamente, ma al futuro, come perdita del mondo di prima, in cui gli abbracci, i baci, le strette di mano erano parte integrante della relazione con l’altro. Ora ne siamo privati e ci ritroviamo soli e confusi. I nostri giovani, la generazione più colpita per il bisogno progettuale di vita e di socialità, non sono la “generazione Covid”, come da più parti si legge. È pericoloso chiamarli così perché ciò può innescare un vittimismo da cui è difficile uscire. Dovremmo invece prendere atto, noi adulti, di questi anni nefasti, imprevedibili, che ci hanno lasciato sgomenti di fronte a noi stessi e all’altro; solo così possiamo trovare il modo per aiutare i bambini, gli adolescenti e i giovani a remare controcorrente, a trovare il guado nella tempesta. Perché è vero che è tutto così ostico e drammaticamente difficile, ma è proprio dai momenti più bui della storia dell’uomo che l’essere umano può rinascere più forte di prima.

All’inizio del 2021 abbiamo attraversato la terza ondata con le varianti del virus e vissuto la speranza che il vaccino ci avrebbe guarito, portando l’immunità di gregge tanto agognata. Aspettavamo il vaccino con trepidazione, abbiamo faticato, sognato, lottato, lo abbiamo idealizzato e al contempo ci siamo spaventati, turbati, arrabbiati di fronte al vaccino stesso. Metafora da un lato di cura e salvezza, dall’altro di veleno iniettato sul piano fobico-persecutorio. La maggior parte delle persone ha reagito al vaccino vivendolo come unica possibilità di ritorno alla vita dando fiducia alle istituzioni. La restante parte della popolazione ha reagito con paura fobica negando l’importanza del vaccino e sottraendosi alle responsabilità individuali e collettive. Anche qui, nella storia dell’uomo, dobbiamo ricordarci quanto siamo sempre stati ambivalenti di fronte ai farmaci e quanto la natura umana sia contraddittoria: da un lato il farmaco o il vaccino vissuto come cura e salvezza, dall’altro il farmaco o il vaccino vissuto come pericolo per la salute.

Oggi, dicembre 2021, siamo investiti dalla quarta ondata, sconcertati, stanchi, delusi. Siamo angosciati dal peso dell’incertezza, non dalla paura del contagio. Abbiamo imparato che il vaccino ci salva la vita dalla malattia grave del coronavirus, non dal contagio. Stiamo imparando che l’immunità di gregge non può essere l’obiettivo del vaccino perché il virus muta continuamente e questo mutare ci sospinge ancora di più nell’incertezza. Siamo angosciati perché non riusciamo a vedere la fine di questa grave crisi mondiale. Se impariamo a tollerare il disorientamento e la sensazione di precarietà nel convivere con un virus in continua mutazione, solo così, prendendone atto, questa fase storico-sociale può diventare una sfida, una grande opportunità di crescita psicologica per tutta la comunità umana.